venerdì 30 settembre 2016

Così, nelle pagliare d’Abruzzo, ho scoperto quei non-luoghi fantastici dove si può fare innovazione

Ho passato l’estate in montagna e ho scoperto delle aree magnifiche, nel cuore dell’Abruzzo, che non avrei potuto conoscere se non mi fossi gettato nell’esplorazione di questi “non-luoghi”. Li chiamo così per una serie di constatazioni. Spesso si tratta di posti remoti, persi nel nulla, fermi in un tempo che non può essere diverso da quello dell’esperienza che nutre la memoria personale. Non-luoghi che, il più delle volte, non fanno parte del dibattito sulla contemporaneità, ma che ogni giorno di più diventano importanti presidi per ripensare il mondo. Vediamo.

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PAGLIARE D’ABRUZZO

All’interno del Parco del Sirente, sulla strada per Secinaro, dopo una lunga marcia per scalare la montagna si arriva alle Pagliare di Tione, costruzioni rettangolari in pietra calcarea a due piani, suddivise tra spazi superiori abitativi e spazi inferiori, utilizzati come stalle. In un sito dedicato al posto trovo scritto:

Le pagliare sono costruzioni situate a circa 1000 metri negli altopiani sopra la valle dell’Aterno, ed utilizzate dai contadini e dai pastori della zona nel periodo estivo fino a cinquanta anni fa. Attestate già dal catasto di Tione dal XV secolo, le pagliare costituiscono una testimonianza eccezionale della cultura contadina della montagna abruzzese.

Se questa è la descrizione didascalica del luogo, dal punto di vista psicologico ed emotivo devo dire che mi sono sentito improvvisamente benissimo, carico ed entusiasta. Ho trovato un borgo strappato all’incuria e all’abbandono e completamente recuperato. Il pensiero ha cominciato a correre e, come spesso accade in quella naturale ricerca di altrove che ognuno di noi conserva dentro di sé, ho immaginato a come usare quel posto. Non è solo una deformazione professionale quella del tentativo di costruzione di alternative possibili ai nostri stili di vita, ma è l’esigenza di sfuggire al ritmo nervoso ed eccessivamente pervasivo della città, che ci spinge a un esercizio estenuante di problem solving, lontano dalla calma e dalla lucidità necessari per la ricerca di una “cura”. Mi sono detto: sarebbe fantastico portare qui le persone che conosco e stare assieme qualche giorno per confrontarsi, discutere, progettare. Un pensiero che, ormai, si affaccia in modo sempre più raro nei miei giorni cittadini. Perché?

IL NODO DELLE CITTA’

Le città, oggi, rappresentano un nodo importante nell’elenco delle questioni da affrontare. L’inurbazione sfrenata degli ultimi anni e, al contempo, la difficoltà degli apparti amministrativi di trasformarsi sulle esigenze di comunità sempre più complesse e stratificate, costringe i temi delle Città Intelligenti e della Rigenerazione Urbana in un angolo da cui difficilmente, letteratura e accademia a parte, si riesce a uscire. Le città, in questo momento storico, da motori di sviluppo sono diventati fattori frenanti, dominati da disordine e caos.

I Non-luoghi vivono grazie al riunirsi di conoscenze e competenze diverse in filiere temporanee

Eppure, a guardare bene, l’innovazione c’è, solo sta accadendo altrove. Mentre le città richiedono un immane sforzo di ricerca di momentanei equilibri e di soluzioni, spesso concentrati nell’esercizio virtuoso della politica locale, il territorio nazionale sta offrendo asilo nei suoi punti più remoti a organizzazioni informali, realtà (per citare l’intervento di Carlo Androgini su Fabric, Storie e visioni di contesti di cambiamento) con “forte aggregazione pluriprofessionale, caratterizzate da approcci collaborativi e criteri di partecipazione e dialogo con i propri interlocutori”. Sono Non-luoghi che vivono grazie al riunirsi di conoscenze e competenze diverse in filiere temporanee, alleanze rese possibili da azioni di scopo orientate al ripensamento dei processi politici, economici e sociali. Questo processo di delocalizzazione dei flussi dell’innovazione non si lega a un fenomeno comportamentale passeggero, ma è sempre più il risultato di un bisogno di capitalizzare il proprio impegno al di fuori delle finalità del lavoro (inteso come routine di quotidiana e meccanica sopravvivenza), per orientarlo su obiettivi concreti e immediatamente misurabili.

MAPPA DI UN’ALTRA ITALIA

Nasce così una mappa di un’altra Italia (quella, in fondo, che raccontano progetti come Italia che Cambia) in cui si verificano situazioni di sospensione, riflessione e azione finalizzati a disegnare nuovi strumenti e piattaforme di sistema. Non è un discorso che si lega alla nostalgia di un ritorno ai primordi, non è un pensiero che guarda necessariamente alla decrescita felice o all’esaltazione indiscussa del modello slow (senza negare il fascino di questi approcci) quanto, piuttosto, l’urgenza di costruire percorsi di senso, strettamente collegati ai problemi da risolvere che le politiche dei territori faticano a governare in prospettiva. In tal senso, per citare anche una volta Carlo, è davvero utile oggi la presenza “di particolari soggetti che si accollano la responsabilità di dare ritmo, stimolare, intuire”. Sono questi soggetti, veri e propri enzimi, a riattivare il tessuto della creatività, della conoscenza, della visione del progresso in ogni sua forma (socio culturale, scientifica, tecnologica).

ANDREA BARTOLI (FARM CULTURAL PARK FAVARA)

Ma come sono organizzati questi presidi? Ne ho parlato con Andrea Bartoli, fondatore del Farm Cultural Park di Favara.

Ci troviamo in un momento particolare. Nel dibattito sull’innovazione, si stanno affermando delle zone franche. Sono spesso luoghi remoti, distanti da tutto, dove si riuniscono diverse professionalità e competenze per parlare di futuro e cambiamento. Le città, invece, sono sempre più affogate da urgente d’altro tipo. Secondo te cosa sta accadendo, perché questo fenomeno?

Quattro anni fa, fui ospite del CITRAC IL Centro di Architettura Contemporanea di Trento. Arrivato a Trento, trovai una città bellissima, completamente ristrutturata, pulita, con i vigneti dentro la città. I nostri ospiti furono carinissimi, ci portarono a mangiare fuori a pranzo e poi ci accompagnarono in albergo per un riposino prima della presentazione. Ricordo che a quel punto dissi a mia moglie: Ma cosa devo raccontare a questi signori, della nostra Favara sventrata che sembra Beirut?”. Per farla breve venne fuori una delle più belle presentazioni di Farm, così sentita che a distanza di meno di sei mesi generò un viaggio studio di 40 architetti di Trento a Favara. Viaggio studio, ti rendi conto? A distanza di anni mi sono potuto dare una sola risposta. Laddove vivi bene, hai uno stipendio o comunque riesci a lavorare, esistono degli interlocutori pubblici che garantiscono una ottima qualità della vita e sono pronti a sostenere ogni tua iniziativa, rischi di perdere mordente, voglia di fare, semplicemente ti adagi. Qui in Sicilia, al sud in genere, siamo affamati di riscatto, vogliamo per una volta essere i primi in qualcosa, ci siamo stancati di essere sempre ultimi in tutte le classifiche sulla qualità della vita, non ci sono altre alternative, o metti in azione delle politiche di ribellione allo status quo, all’ipocrisia della legalità, all’inesistenza di riferimenti pubblici, oppure ti pieghi al nichilismo. E’ una questione di vita o di morte, quanto meno spirituale. Certo Trento non è Roma, Milano, Napoli o Palermo; è una storia diversa. Ad ogni modo nelle grandi città hai comunque dei teatri, dei cinema, qualche museo, non senti il totale isolamento culturale come nella Provincia.

Sempre più di frequente, accanto a fenomeni di esaltazione di una decrescita felice, prendono spazio comunità di cambiamento che, lungi dal rinnegare il progresso e il nuovo che avanza, lavorano quotidianamente per produrre valore. Quale può essere il ruolo di progetti come Farm Cultura Park nella società contemporanea?

Il tema della decrescita felice mi affascina sempre tantissimo. Chi non vorrebbe ritirarsi in un pezzo di campagna, avere il proprio orto, essere connesso al mondo e periodicamente immettersi nella bolgia della società contemporanea. In teoria sembra facile, nella pratica, noi di Farm Cultural Park corriamo come se vivessimo a Times Square. Altro che decrescita. Ho un caro amico, Mario Carbone, che da sei anni ha mollato tutto e si è ritirato a Butera a fare permacultura. Una scelta consapevole di decrescita. Dopo alcuni anni arrivavano tutti i giorni alcuni volontari da tutto il mondo (cd. woofer), era molto bello ma occorreva andarli a prendere, cucinare con loro e per loro, assegnare compiti e coordinare le loro mansioni. Una scelta di decrescita stava diventando la gestione di una grande Onlus. Spero che l’esperienza di Farm possa avere una dimensione politica; Farm è la dimostrazione del totale fallimento di decenni di pensiero urbanistico, di piani regolatori generali mai approvati, di milioni di euro di finanziamento mal gestiti erogati al Mezzogiorno senza una visione, di procedimenti amministrativi e normative sanitarie ipocrite e impossibili, di politici, dirigenti e amministratori pubblici, talvolta anche istituzioni universitarie e scientifiche che hanno teorizzato tutto e il contrario di tutto senza mai produrre uno solo degli effetti desiderati. Farm in questi sei anni ha cambiato l’identità di Favara, è cambiata la percezione interna ed esterna; non c’è un pezzo di Centro Storico che non sia oggetto di trasformazione, nascono alberghi, b&b, spazi culturali, ristoranti e pizzerie. Una città che faceva turisti zero chiuderà questi quattro mesi estivi del 2016 con poco meno di 78mila presenze. Senza soldi pubblici, piani regolatori generali e minchiate varie ma semplicemente con una visione chiara delle strategie e azioni connesse e soprattutto con il coinvolgimento di una Comunità che ha deciso di essere parte di un sogno collettivo.

Filiere temporanee, connessioni aperte sul mondo, costruzione di reti. Come possono evolvere progetti come il vostro in un’azione sistemica di cambiamento del territorio?

La tua domanda contiene parte della risposta. Progetti come Farm nascono e crescono grazie a Filiere temporanee, connessioni aperte sul mondo, costruzione di reti. L’asset patrimoniale più importante di Farm, non sono gli immobili di proprietà ma proprio questa Comunità allargata sulla quale continuiamo tutti i giorni ad investire. L’unico nostro credo sino ad oggi è stato unciti cu chiddi megghiu i tia e pizzici i spisi”, non abbiamo mai invitato potenti ma gente di valore; abbiamo imparato da loro, ci siamo ispirati alle loro buone pratiche, abbiamo seguito i loro consigli, abbiamo continuato a costruire valore insieme a loro. Adesso siamo in trattativa con un Fondo di Investimento; se questa operazione dovesse andare a buon fine, sarà molto importante non solo per il futuro di Farm ma anche per tutti coloro che operano in questo ambito; occorre far incontrare chi ha i capitali con chi produce impatti sociali. Non vedo altre strade, almeno fino a quando non mandiamo a casa la vecchia classe dirigente e non portiamo gente di valore a gestire il futuro del nostro Paese.

LA RESILIENZA

Andrea ha messo in risalto alcuni elementi molto importanti. La resilienza. Si tratta, spesso, di progetti di resistenza culturale a derive di abbandono e degrado, con l’ambizioso obiettivo di facilitare la trasformazione. Le filiere temporanee. Il più delle volte, parliamo di comunità aperte, strutture deboli (per dirla alla Granovetter) rispetto ai legami tradizionali di tipo clientelare, ma proprio per questo sane ed energicamente aperte alle connessioni e alle contaminazioni. Resta da stabilire in che modo si possa realmente stabilire il legame con il territorio che, depositario di una memoria culturale ben precisa, è l’ostacolo più difficile da superare. Nel bellissimo intervento di Marco Aime ne L’Arte della condivisione, si legge:

La metafora delle radici evoca una serie di elementi che finiscono per costituire la base di ideologie esclusiviste. Innanzi tutto perché, se presa letteralmente, ci dice che noi non potremmo essere altrimenti da ciò che siamo, che la nostra cultura e la nostra identità sono segnate fin dalla nascita.

E ancora:

La metafora delle radici rimanda a origini, pure e incontaminate, che attribuiscono ogni espressione culturale di una società a quella stessa società, escludendo ogni influenza e contaminazione.

Queste parole ci fanno riflettere sul futuro, su quanto sia importante riscoprire le nostre eredità culturali andando avanti nella trasformazione delle interpretazioni in rapporto alle esigenze più forti della società contemporanea.

ROBERTO COVOLO (EX FADDA)

Ho chiesto a Roberto Covolo, che da anni lavora nell’innovazione sociale e che, attualmente, si sta dedicando al progetto di Ex Fadda, un parere.

Alcuni territori hanno identità forti. Senza dubbio si tratta di retaggi la cui conservazione ha un oggettivo valore storico e culturale, ma possono anche diventare dei confini sul mondo, dei muri invalicabili. Tu lavori su Ex Fadda. In che misura il vostro progetto è condizionato o, per dirla meglio, legato al territorio?

ExFadda (www.exfadda.it) non esiste senza San Vito dei Normanni, non ha senso senza la sua comunità. Dal principio abbiamo immaginato un percorso che avesse nel coinvolgimento dei cittadini – specie i più giovani – il punto di leva per avviare il riuso dell’ex stabilimento. C’è un motto che in questi anni è andato assai di moda nel dibattito dello sviluppo locale: “Pensare globalmente e agire localmente”. Noi abbiamo provato ad invertire l’ordine degli addendi: “Pensare localmente e agire globalmente”. Questo significa non vergognarsi di quello che siamo (una piccola comunità del Sud italia distante dai flussi principali di beni e di persone) ma al contrario valorizzare le risorse inespresse del territorio per farne prototipi progettuali e ipotesi di sviluppo locale da proporre a tutto il mondo. Così sono nate e si sono sviluppate numerose idee che oggi abitano gli spazi dell’ExFadda: la World Music Academy, un centro di formazione e produzione di livello nazionale che parte dalla valorizzazione del patrimonio di musica popolare di San Vito dei Normanni; La Manta, un progetto che mette insieme designer e artigiane locali per realizzare prodotti che recuperano la tradizione del lavoro a maglia, ma con gusto contemporaneo; XfOTO, un collettivo di fotografi e videomaker che racconta le imprese e le associazioni del territorio; e così via.

Mi sembra che, nonostante la retorica sulla necessità di costruire spazi a misura delle nuove generazioni, il vostro interesse sia piuttosto di realizzare una cultura dell’educazione alle opportunità del territorio. Non è detto, quindi, che sia necessario rottamare il passato per costruire le strade del progresso. Quali azioni concrete state realizzando con Ex Fadda?

ExFadda è una specie luogo dove proviamo a trasformare le idee in progetti concreti. Da noi non impari a fare un business plan o un’analisi di mercato dai manuali, ma attraverso l’attivazione e la diretta esperienza entri in contatto con le tue vocazioni e con il mondo. Siamo una specie di incubatore di comunità che offre una opportunità di attivazione a chi decide di salire a bordo, aprendo al tempo stesso uno spazio di confronto pubblico sul futuro del patrimonio immobiliare pubblico dismesso o in disuso nelle nostre comunità. Cerchiamo al tempo stesso di rendere sostenibile la nostra avventura, cercando di tenere insieme dinamiche imprenditoriale – gli strumenti tipici dell’impresa – ma non le finalità: il nostro obiettivo non è massimizzare il profitto, ma aumentare le opportunità per il territorio e promuovere il bene comune. Così è nato XFOOD, il nostro ristorante sociale: dalla riconversione delle vecchie stalle dello stabilimento è nato un luogo dove ragazzi e ragazze con disabilità imparano un mestiere e lo mettono in pratica tra i fornelli in cucina e tra i tavoli in sala (www.ristorantexfood.com).

Andrea Bartoli ha parlato di filiere temporanee e di connessioni aperte. Io, però, continuo a pensare che per ottenere un reale cambiamento l’azione debba diventare una funzione sistemica, una infrastruttura aperta, ma solida. È possibile costruire reti di attivatori sul territorio che lavori insieme?

È una questione che ci siamo posti spesso, nei dibattiti sull’innovazione sociale e nelle occasioni informali di incontro. Molte reti sono nate in questi anni intorno a questioni specifiche o per raggiungere obiettivi particolari. Io credo che non dobbiamo essere ossessionati dall’idea di “metterci a sistema” ma dobbiamo provare invece a moltiplicare gli scambi e le conversazioni tra simili. Andare, ospitare, far circuitare. Il cambiamento non è una questione che riguarda solo noi, d’altronde. Con noi intendo la comunità di attivatori che condivide approcci e metodi di lavoro alla quale alludi. Per cambiare dobbiamo avere dalla nostra parte i cittadini, i giovani disoccupati, i lavoratori, gli insegnanti, le mamme, i professionisti: ne abbiamo di strada da fare, guai a sentirci un’avanguardia. La cosa migliore che possiamo fare, per ora, è renderci utili ad “allargare il giro”, a permettere a sempre più persone di partecipare allo spazio pubblico e di porsi le domande giuste.

IL BANCO DI PROVA DELL’INNOVAZIONE

Come testimoniano questi interventi, se oggi il banco di prova è trovare la forma per un dialogo costruttivo tra l’identità culturale di un territorio e la sua rinascita in termini di apertura al progresso (senza alcun sospetto nei confronti della tecnologia, che non deve mai venire vista come nemica), è pur vero che abbiamo sempre più bisogno di attivare luoghi e costruire percorsi. Alcune filiere si formano in modo temporaneo, ma non sono in disaccordo con l’idea di costruire un sistema, anche flessibile di connessioni. Il fenomeno, in tutta la sua complessità, è da inquadrare in quello che Bauman ha definito desiderio di comunità prende varie forme, come ricorda nel suo ultimissimo articolo per Che Fare Aldo Bonomi.

La comunità del rancore rifiuta l’apertura e il cambiamento così come la comunità di cura sviluppa cultura della prossimità e dello scambio.

Noi che lavoriamo nell’innovazione crediamo in una società a venire diversa; crediamo nell’accelerazione perché siamo convinti che, per citare di nuovo Bonomi, in noi non c’è che futuro. Per questo, è diventato importante collaborare per la continua edificazione di non luoghi che funzionino come propulsori di riflessione e confronto. Possono diventarlo un centro culturale, un coworking, uno hub, ma anche un Festival, un evento, un qualcosa che temporaneamente o stabilmente entra nella possibile geografia del cambiamento, tanto da catalizzare l’attenzione e favorire il coinvolgimento del capitale umano.

Luoghi preposti allo studio e sperimentazione delle soluzioni. Non c’è assolutamente bisogno di fughe e di scelte da anacoreta, non serve lo sguardo sognante verso un altrove che non verrà. L’obiettivo, per noi resilienti in Italia, è costruire solide alternative.

DAVIDE PELLEGRINI

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Fonte: http://www.chefuturo.it/2016/09/innovazione-pagliare-luoghi/

Cari colleghi, mi dimetto: così quelle accuse ingiuste hanno minato la mia credibilità

  • La virologa italiana Ilaria Capua, dopo la vicenda giudiziaria che l’ha vista prosciolta da ogni accusa in quanto “il fatto non sussiste” in indagini su un presunto traffico illegale di virus, si è dimessa da deputato. Questo è l’intervento alla Camera con il quale annuncia appunto le sue dimissioni e il nuovo incarico negli Stati Uniti. 

Gentile Presidente, cari colleghi, oggi rassegno le mie dimissioni  da Deputato della Repubblica italiana. E’ stata una decisione sofferta e ponderata, che ho maturato nel tempo e che si è articolata intorno alla parola “rispetto”. Quando sono entrata alla Camera dei Deputati ero una scienziata conosciuta e stimata per gli studi che avevo svolto in virologia, ero piena di buoni propositi e assolutamente  determinata a sollecitare quei cambiamenti nel mondo della ricerca di cui l’Italia ha un disperato bisogno. Avevo una missione, avevo a cuore un obiettivo, uno solo. Ho rivestito con orgoglio, determinazione e credo con equilibrio la carica di vice presidente della commissione Cultura, Scienza ed Istruzione della Camera cercando di essere rigorosa ed  imparziale come uno scienziato deve essere. Dopo circa un anno dalla mia elezione sono stata travolta da una indagine giudiziaria risalente agli anni duemila (1999-2007) che mi accusava di reati gravissimi, uno dei quali punibile con l’ergastolo.

L’effetto più devastante che queste accuse hanno avuto sul  il mio ruolo di parlamentare è stato quello di aver minato la mia credibilità

E’ stato per me un incubo senza confini ed una violenza che non solo mi ha segnata per sempre, ma che ha coinvolto e stravolto anche la mia famiglia. L’effetto più devastante che queste accuse hanno avuto sul  il mio ruolo di parlamentare, è stato quello di aver minato la mia credibilità, ed è proprio in questo particolare  della vicenda che  entra in gioco  la parola rispetto. Un parlamentare che non è credibile non è in grado di portare avanti con forza le istanze nelle quali crede. Il parlamentare che  non è credibile viene attaccato, anche in maniera strumentale e le sue battaglie perdono energia vitale. Un parlamentare che non è credibile non viene preso sul serio. Nell’affrontare ogni giorno in questa Camera la mia nuova condizione di “persona non credibile”, e oltretutto accusata di crimini gravissimi, ho vissuto sulla mia pelle per oltre due anni,  come  la mancanza di credibilità non mi stesse permettendo di  portare avanti quello per cui mi ero impegnata con i miei elettori.

Ho sentito che fosse giunto il momento di tornare ad usare il mio tempo al meglio, di tornare nel mondo scientifico, purtroppo non in quello italiano

E qui torno alla parola rispetto – perché è proprio la combinazione del rispetto per i miei elettori ed il rispetto per me stessa che –  come se fossero parte di un algoritmo-  mi ha fatto comprendere che in quelle condizioni non stavo utilizzando al meglio il tempo che avevo a disposizione. Sì, perche non ci piace pensarlo,   ma ognuno di noi ha un tempo limitato che gli resta da vivere –  e utilizzare al meglio quel tempo è una forma di rispetto verso se stessi e verso gli altri. Anzi un dovere. Ho sentito quindi,  che fosse giunto il momento di tornare ad usare il mio tempo al meglio, di tornare nel mondo scientifico, purtroppo non in quello italiano,  in un ambiente nel quale non avessi mai perso la credibilità e nel quale fossi riconosciuta ed  apprezzata.

Ho accettato, su richiesta di una organizzazione internazionale, un incarico di Direttore di un Centro di Eccellenza all’Università della Florida. Ho deciso di trasferire la mia famiglia negli Stati Uniti per proteggerla dalle accuse senza senso ma nel contempo infamanti che mi portavo sulle spalle. Perché una mamma ed una moglie deve farsi carico anche di questo. Proteggere. E aggiungo,  una donna di scienza nel quale questo Paese e l’Europa hanno investito ha il dovere di non fermarsi. Ha il dovere di continuare a condurre le proprie ricerche nonostante tutto, perché la scienza è di tutti ed è strumento essenziale per il progresso.

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La Procura di Verona in sede di udienza preliminare ha smontato il castello accusatorio pezzo per pezzo, prosciogliendomi dai molteplici capi d’accusa perché “il fatto non sussiste”

Venti giorni dopo il trasferimento negli Stati Uniti la Procura di Verona in sede di udienza preliminare ha smontato il castello accusatorio pezzo per pezzo, prosciogliendomi dai molteplici capi d’accusa perché “il fatto non sussiste”. Secondo la giudice una sola accusa meritava di essere eventualmente approfondita in dibattimento, ma il presunto reato era ormai prescritto da tempo e quindi  sarebbe stato inutile proseguire.

La sentenza è  passata in giudicato e nessuno l’ha impugnata. Nessuno.  Ora che è finita, potrei tornare indietro, ma vi dico la verità, non me la sento. Devo recuperare forze,  lucidità e serenità, devo lenire la sofferenza che è stata provocata a mia figlia e a mio marito. Devo recuperare  soprattutto fiducia in me stessa, appunto perché voglio usare al meglio il tempo che ho a disposizione. Lo devo ai miei genitori, ai miei maestri, ai miei amici e ai miei allievi di ieri e di domani.

Voglio dar voce a tutte le persone innocenti accusate ingiustamente, che attendono impotenti che la giustizia faccia il suo corso

Paradossalmente, penso che se questo mio passaggio di vita come rappresentante del popolo italiano, lascerà un segno, non riguarderà la scienza o la ricerca. Riguarderà la giustizia. Quello che è successo a me accade troppo spesso in Italia, e potrebbe succedere a chiunque. In occasione di questo momento  voglio dar voce a tutte le persone innocenti accusate ingiustamente, che attendono – impotenti, che la giustizia faccia il suo corso.  Perché anche loro meritano rispetto. Cari colleghi,  ci sono molti cambiamenti all’orizzonte nel nostro Paese, e sono certa che attraverso di voi e attraverso l’operato del governo l’Italia diventerà un Paese più innovativo  e più giusto. Ora, infatti, le questioni che più mi stanno a cuore sono due, e non più una sola.

Torno al mio posto,  a fare quello che so fare meglio, all’estero, ma sempre con lo sguardo rivolto verso l’Italia.

ILARIA CAPUA

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Fonte: http://www.chefuturo.it/2016/09/credibilita-giustizia-accuse-ilaria-capua-camera/

Della scrittura e della “morte” (ma solo apparente, e solo su Internet e sms) del punto

È sorprendente come un piccolo punto (letteralmente) faccia titolo. Ho tenuto una conferenza all’Hay Festival sul mio libro sulla punteggiatura, “Making A Point” (Fare un punto). Verso la fine, ho illustrato il modo in cui l’uso del punto (periodo) stava cambiando in rapidamente le impostazioni di dialogo su Internet e nei servizi di messaggistica breve – essendo omesso alla fine delle affermazioni, e utilizzato solo quando lo scrittore desideri aggiungere una carica emotiva a quanto viene detto. Questo genere di cose:

John sta arrivando alla festa

[affermazione di fatto]

John sta arrivando alla festa.

[Oh cielo!]

Il mio punto di vista generale è stato quello di mettere in guardia le persone sull’accettare acriticamente i tipi di definizione dati spesso quando ai bambini viene insegnata la punteggiatura, come ad esempio “Una frase deve terminare con un punto”. È importante attirare la loro attenzione sui limiti di tale definizione.

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IL PUNTO, INTERNET, I GIORNALI

Per cominciare, dovrebbe essere “Un’affermazione… “, comparando il punto alle altre forme di punteggiatura di fine frase (?, !, …), ma è importante altresì riconoscere che ci sono molte eccezioni. Guardatevi intorno: i segni pubblici (USCITA – ellittica per la prescrizione “Questa è la via d’uscita”), per esempio, di solito non terminano col punto. Le notizie sui giornali non terminano con il punto (i giorni nostri – una storia diversa in epoca vittoriana). Abbreviazioni come BBC e Sig hanno abbandonato i loro punti durante il secolo scorso. E su Internet, in alcuni contesti in cui è evidente dal layout che una frase sia terminata, essi vengono omessi.

Come disse una volta John Humphreys, nello Spettatore, il lavoro di un giornalista è semplificare ed esagerare. E così è stato. Il mio punto è stato riportato sulla prima pagina del Telegraph – prima pagina, niente meno – e sul sito online ha avuto il titolo “Il punto passa di moda grazie alla messaggistica istantanea”. Si noti la generalizzazione. Mentre io stavo dicendo che il punto stava cambiando nella messaggistica istantanea (e simili), l’articolo lo riporta come cambiamento generale a causa della messaggistica istantanea.

Non sorprende che, poiché i giornali e i programmi radiofonici rubano sempre gli uni dagli altri, come nel gioco del telefono, il dramma è aumentato. E quando ha ottenuto la prima pagina del New York Times – ancora una volta – il titolo era “Un punto per i periodi?” e il paragrafo di apertura ha fatto una sintesi che si è poi diffusa in tutto il mondo: “Probabilmente una delle più antiche forme di punteggiatura sta morendo”. E lo scrittore ha continuato:

Il periodo… viene gradualmente abbattuto dal bombardamento della messaggistica istantanea che è divenuta sinonimo dell’era digitale

Non ha utilizzato alcun punto al termine del suo paragrafo, o altrove nell’articolo. È stato un cliché intelligente, ma è andato ben oltre quello che stavo dicendo, perché non c’è alcuna prova che il punto venga meno utilizzato nello scritto convenzionale, come ad esempio negli articoli di giornale. La battuta dello scrittore ha funzionato perché ha limitato il suo pezzo a paragrafi di singole frasi. Se avesse usato più di una frase per paragrafo, avrebbe presto dovuto ricorrere al punto per rendere la sua scrittura di facile lettura.

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Il punto non sta morendo, al di là delle circostanze che ho citato sopra

Così il punto non sta morendo, al di là delle circostanze che ho citato sopra. Ma nel giornalismo, chi si preoccupa di commenti di qualificazione del genere? La morte fa sempre una buona storia, e allora perché rovinare tutto? E così, nelle ultime 24 ore, vediamo questi titoli:

Il periodo è morto – ma che importa?

(Boston Globe)

Il periodo arriva a un punto

(The Straits Times)

Il periodo ha raggiunto il punto di non ritorno?

(San Diego Uninon-Tribune)

Il periodo è morto. Lunga vita al periodo.

(Huffington Post)

Punto? Non c’è punto

(The Telegraph, Calcutta)

Senza dubbio molti di più nelle prossime 24. E la mia casella si sta riempiendo di persone che cercano di attirare la mia attenzione sul fatto che il cambiamento nell’utilizzo è limitato al contesto – che è ovviamente quello che dicevo in primo luogo.

LA PUNTEGGIATURA FA NOTIZIA IN PRIMA PAGINA

Sono enormemente impressionato dal fatto che la punteggiatura faccia notizia da prima pagina in un modo in cui altri aspetti del linguaggio non lo fanno. Ma il trattamento giornalistico rafforza il mio principale punto pedagogico: che quando ai bambini viene insegnata la punteggiatura, c’è bisogno di raccontare loro sull’uso diversificato che fa parte dell’esperienza ortografica quotidiana, e non di dare (o testare!) regole che funzionano solo qualche volta. La semplificazione è la maledizione dell’ortografia. Fortunatamente, il body-copy negli articoli di cui sopra era solito affrontare la complessità in una certa misura. Ma la gente ricorda i titoli dei giornali, che erano fuorvianti quanto il vecchio mantra “Una frase deve terminare con un punto”.

DAVID CRYSTAL

Originariamente pubblicato su david-crystal.blogspot.it 

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Fonte: http://www.chefuturo.it/2016/09/scrittura-punto-giornali-internet-sms/

Addio Rosetta, fine missione con gran finale (in diretta streaming) sulla superficie della cometa

Oggi sarà la giornata finale della missione Rosetta e tutti gli occhi saranno puntati sull’ultima spettacolare manovra della sonda. Prima di descrivere cosa farà la sonda nelle sue ultime ore operative, proviamo a capire come mai si sia deciso di porre fine ad una missione che ha cambiato il nostro rapporto con le comete. Da poco più di due anni Rosetta sta volando in formazione con la cometa 67/P Churyumov-Gerasimenko. L’ha intercettata il 6 agosto 2014 quando la cometa era ancora ben al di là dell’orbita di Marte e l’ha seguita nel suo avvicinamento al Sole, fino al punto di minima distanza il 13 agosto 2015, per poi continuare la corsa, questa volta in allontanamento. Se volete seguire del viaggio di Rosetta guardate questo bel simulatore del sistema solare messo a disposizione dall’Agenzia Spaziale Europea.

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MANCA L’ENERGIA

Tutto si svolge nella profondità del sistema solare: adesso Rosetta è a 570 milioni di km del Sole e a 716 dalla Terra (che si trova dall’altra parte del Sole rispetto a Rosetta ed alla cometa). Sono distanze importanti, ben superiori alla distanza Terra–Sole, che è 150 milioni di km. Questo significa che Rosetta riceve meno di un decimo del flusso solare che riceviamo noi e i 64 metri quadrati di pannelli solari tra poco non saranno più in grado di fornire l’energia necessaria per fare funzionare gli strumenti e inviare i dati a Terra. Con il Sole che si allontana di 1 milione di km al giorno non si poteva aspettare molto più a lungo. La possibilità di ibernare la sonda, come era successo nel tragitto di andata, è stata scartata perché gli strumenti non sono più nuovissimi e due anni di attività in prossimità dell’ambiente polveroso della cometa ha ridotto la resa del monolocale di pannelli solari che sono l’unica sorgente di energia della sonda. Dal momento che non c’era la ragionevole certezza che la sonda potesse sopravvivere al gelo dello spazio profondo per poi potersi risvegliare tra qualche anno, nel prossimo avvicinamento della cometa (che ha un’orbita di 6 anni) si è preferita una soluzione diversa.

Con la morte nel cuore, è stato deciso di porre un fine alla missione che ha suscitato tanto interesse nel pubblico anche grazie ad una sapiente divulgazione che ha umanizzato Rosetta e Philae facendoli diventare protagonisti di un godibile cartone animato a puntate disponibile nel sito  e che ho riassunto in queste poche pagine.

La sonda non verrà semplicemente spenta, verrà fatta posare sulla superficie della cometa

Ma la fine di Rosetta non passerà inosservata. Il centro di controllo ESOC di Darmstadt (ESOC per ESA Space Operation Center) ha pensato a un epilogo spettacolare. La sonda non verrà semplicemente spenta, verrà fatta posare sulla superficie della cometa in modo che gli strumenti possano riprendere, fino alla fine, immagini sempre più ravvicinate. Un’occasione unica per realizzare un accometaggio in diretta streaming che sorvolerà una zona di particolare interesse della cometa bitorzoluta dove sono stati localizzati dei veri e propri pozzi dai quali sono stati visti uscire getti di gas e polveri. L’avvicinamento durerà ore perché la gravità della cometa è minuscola e Rosetta procederà tranquillamente verso il suo appuntamento con la storia trasmettendo foto sempre più dettagliate e analizzando il gas a quota sempre più bassa. L’impatto è atteso per le 10:40 tempo Universale, 12:40 da noi, ma ricordiamoci che bisogna aggiungere il tempo di transito del segnale che impiegherà 40 minuti per raggiungerci. In attesa della diretta streaming, ci possiamo preparare con una bella simulazione della discesa.

La sonda diventerà un silenzioso monumento a se stessa e alla squadra fantastica di scienziati e tecnici che ha portato a termine questa bellissima missione

Prima di appoggiarsi sulla superficie della cometa, dove presumibilmente la sonda verrà danneggiata, il trasmettitore radio verrà spento e la sonda diventerà un silenzioso monumento a se stessa e alla squadra fantastica di scienziati e tecnici che ha portato a termine questa bellissima missione della quale tutti noi europei dobbiamo essere fieri. Un pezzo di tecnologia europea ha fatto quello che nessuno aveva mai osato immaginare: seguire, studiare, annusare una cometa per due anni, fare atterrare un piccolo lander che, nella sfortuna, è riuscito ad inviare risultati importanti. Abbiamo potuto apprezzare a fondo la sfiga di Philae quando, poche settimane fa, lo abbiamo finalmente localizzato incastrato in un crepaccio dal quale usciva solo una delle zampe. Il dramma di Philae atterrato, perso, lungamente cercato, brevemente ritrovato e poi perso definitivamente ha aggiunto un pizzico di suspense che fa la differenza tra la routine e la leggenda.

Oggi Rosetta sarà protagonista di un gran finale e, oltre a seguirlo dal vero, vi consiglio di vederlo nella versione cartoni animati che è veramente ben fatta.

PATRIZIA CARAVEO

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Fonte: http://www.chefuturo.it/2016/09/rosetta-cometa-fine-missione/

Adesso il coworking è diventato mainstream, e vi spiego perché

Sono molte le novità che si sono registrate nell’ultima edizione, a Los Angeles, dell’annuale U.S. Global Coworking Unconference Conference (GCUC). A partire dalla certificazione che il coworking è entrato nel mainstream. Ken McCarthy, capo economista di Cushman, ha affermato che la crescita dei coworking è “assolutamente senza precedenti. Questo business sta attirando una gran quantità di persone in un nuovo e diverso ambiente di lavoro”.

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COWORKING, 10 SEGNALI

Secondo lo small business lab i 10 segnali che il coworking è entrato di diritto nell’industria mainstream sono:

1 La crescita esponenziale di spazi e membri.

2 Strutture sempre più grandi e sempre più numerose, di cui abbiamo già parlato in questo post

3 Il settore immobiliare sta abbracciando il coworking. Infatti sempre più reti, cercano accordi con i proprietari degli immobili prima di aprire un coworking. La situazione americana è contraddistinta dalla forza del mercato immobiliare di New York e dalle sue peculiarità.

4 Il coworking continua a ibridare e verticalizzare spazi in fase di progettazione in una vasta gamma di mercati diversificati.  Questo è uno dei segnali più interessanti e importanti di vitalità, flessibilità e capacità di cambiamento.

5 Business center e spazi coworking hanno capito che sono nello stesso settore. Il riconoscimento da ciascun gruppo del valore dell’altro aiuterà l’intero settore. Ciò è stato facilitato anche dal fatto che l’attuale Presidente della Global Association workplace è stato proprietario di un coworking.

6 Modelli di business di successo dei coworking sono emersi grazie al trasferimento della conoscenza finanziaria dei business center.

7 Viceversa l’approccio innovativo dei coworking su spazio e community sta rendendo i business center più forti, guadagnano dalle interazioni con gli spazi di coworking. E’ ora di definirli come un unico servizio del settore.

8 Il coworking è veramente globale. Sta decollando in Africa e Medio Oriente. In forte espansione in Asia e in Europa. Perché la necessità di tali spazi è universale. Come segnalato dall’intervento di Jean – Yves Huwart fondatore della conferenza Europea dei coworking.

9 Le grandi aziende si sono avvicinate al coworking. Se ne parla anche anche in questo articolo del sole 24h.

10 WeWork continua a prosperare mentre altri così detti “unicorni” vedono le loro valutazioni ribassarsi (comprese Uber e Airbnb). Il rallentamento dell’high tech per ora non incide sul coworking.

Dei punti più interessanti sollevati, tra i quali l’ibridazione e verticalizzazione degli spazi come elemento strategico e l’esperienza di Wework come grande player globale, si parla ampiamente in rete; mentre è utile forse un approfondimento sul versante immobiliare.

LAVORO E MERCATO IMMOBILIARE USA

I coworking aperti durante la crisi finanziaria del 2008 hanno avuto serie difficoltà nel trovare modalità di ricontrattazione di affitti che permettessero una redditività costante delle proprie strutture. Quindi si sono messi alla ricerca di partnership con i proprietari degli immobili per evitare contratti di locazione standard. Un esempio è Grind, marchio di coworking con sedi a New York e Chicago e la partnership avviata con Verizon, modello nel quale una quota dei profitti viene redistribuita tra i partner.

Le partnership sono viste come occasioni di sviluppo anche da parte degli alberghi

Due anni fa, data la drammatica tendenza al rialzo degli immobili commerciali, la soluzione è stata trovata nell’allineamento dei diversi interessi. Le partnership sono viste come occasioni di sviluppo anche da parte degli alberghi. Real Estate Investment Trust (REIT) per decenni ha mantenuto la proprietà delle strutture alberghiere, pagando diritti di licenza ad aziende come Marriott e Hilton per l’uso dei loro marchi, mentre la gestione dell’ospitalità era data in outsoourcing. Recentemente nominato direttore esecutivo del Global Workspace Association (GWA), Jamie Russo ha cambiato il tradizionale modello di business degli spazi di lavoro condivisi aggiungendo nuovi operatori dal lato dell’offerta. il Presidente del Consiglio di Amministrazione di GWA, Scott Chambers è convinto che vedremo nuove joint venture basate su modelli in cui aziende, alberghi, università e REIT inseriscono il coworking come commodity all’interno delle loro strutture, date in outsourcing per le la gestione delle community ai nuovi operatori di coworking. C’è anche chi si chiede se questo sviluppo del mercato immobiliare, sia foriero di una prossima bolla finanziaria e la domanda viene dall’osservatorio USA.

LA DIFFERENZA ITALIANA

Se questo è il quadro come s’incrocia con la situazione italiana? A Los Angeles c’era anche TAG selezionata come case history europeo, ecco la sintesi dell’intervento in cui ha parlato del coworking come modalità di “fare sistema su un territorio”. E da qui ripartirei, dalla necessità di inserire le riflessioni nella cornice italiana. La situazione americana e quella di New York in particolare, fotografano il fenomeno, in città di grandi dimensioni, dove enormi spazi condivisi sono funzionali anche per motivi logistici e di mobilità.

Ben vengano modelli di business più avanzati e partnership con i proprietari degli immobili di cui c’è necessità anche in Italia

Il business che si va creando attorno e dentro al coworking da un lato conferma la giusta intuizione che vede nel coworking una delle forme del futuro del lavoro, dall’altro determina la necessità di contestualizzare tali fenomeni tenendo conto delle differenze culturali, geografiche e morfologiche. Ben vengano modelli di business più avanzati e partnership con i proprietari degli immobili di cui c’è necessità anche in Italia. Oltre ai grandi centri urbani, il ragionamento va esteso alle piccole e medie realtà del tessuto economico produttivo del nostro paese, riformulandolo sulla base di ecosistemi interconnessi. I big player e le istituzioni dovrebbero aver capito una cosa sull’Italia: valorizzare la relazione con le community esistenti sulla base di progetti che vivifichino il patrimonio immobiliare commerciale, ex-industriale ed ex-agricolo, inutilizzato, sarebbe un volano per la crescita di tutti. L’innovazione e il lavoro passano anche da le nuove geometrie dell’economia locale che non possono più essere ignorate!

MICHELE MAGNANI

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Come costruire un robot anche se non sei uno scienziato

Come costruire un robot passo dopo passo, A casa, da soli o con amici che condividono la tua stessa passione, oppure a scuola. Il primo step è quasi sempre un kit. E se con te non c’è un amico che…
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Come costruire un drone volante con un kit

Come costruire un drone volante con un kit. Un drone professionale o giocattolo, un drone ad ala fissa o a eliche, con videocamera o senza. Te lo diciamo noi in questo articolo. Se hai deciso di costruire un drone e non sai da…
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Ingegneria dell’automazione in Italia, cos’è e dove studiarla

Ingegneria dell’automazione in Italia, cos’è e dove si studia? Se l’idea di lavorare in un contesto ipertecnologico e multidisciplinare ti affascina, se ti piacerebbe fare dei robot il tuo pane quotidiano ma non sai ancora come proseguire gli studi dopo il…
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mercoledì 7 settembre 2016

Robot positronici : gli automi del futuro



I robot positronici sono creature immaginarie nate dalla penna di Isaac Asimov, il più influente e prolifico scrittore di fantascienza del ventesimo secolo.




A differenza di Frankenstein, i robot positronici non si ribellano al loro creatore. Hanno per lo più una forma umanoide e sono “lieti di poter servire”, come ripete a ogni comando Andrew, il robot protagonista del fortunato racconto “L’Uomo Bicentenario”, da cui è stato tratto anche un film sui robot con Robin Williams.
Robot positronici, le leggi della robotica come unico limite

venerdì 2 settembre 2016

Intelligenza artificiale : come nasce e perché non è ancora così evoluta


Ci sono due tipi di intelligenza artificiale. Una è una branca dell’ingegneria e cerca di riprodurre comportamenti umani (anzi animali) intelligenti con mezzi non biologici.

LE DUE ANIME DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Recentemente, Deep Q-network (un sistema di algoritmi software) ha imparato a giocare da zero a 49 classici videogiochi Atari, facendo affidamento solo sui dati relativi ai pixel su uno schermo e al metodo di punteggio.